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Ho passato una vita a far fotografie, rubando fette di tempo al lavoro, alle feste, agli altri e a me stesso. Ho girato come un matto da ogni parte, per monti e per valli, città campi e paesi, cercando gente al lavoro, aspettando stagioni, spostandomi dove il sole faceva più luce o l'ombra arrivava scurendo. Per chiudermi poi fino a notte inoltrata, nel mio sgabuzzino a guardare gli scatti, a scegliere le inquadrature e lavorarle, scansarle, snudarle, tagliarle. Solo dopo, potevo andare a dormire sereno. Tutto questo, non vorrei averlo fatto soltanto per me.

Il mio lavoro è prevalentemente presentato in bianco e nero: tenebre e luce, dolore e gioia, di chi, con un timore onesto, fa fotografia. Il nero, l'ho visto da sempre come strascico profondo che accompagna il peso degli eventi, con la foschia del grigio attorno che inevitabilmente avvolge l'esistenza. Il bianco invece, come potenza della luce che sfiora ogni cosa, s'insinua nelle crepe e corre incontro al mondo, fino a diventare forza che bilancia il peso della vita. Mi sono spesso chiesto - è così che si diventa partecipi e spettatori del tempo? quindi testimoni della vita e della morte? . non basta! continuo a rispondermi tutt'ora, sempre più convinto di quanto sia semplice e tremenda la fotografia!

Un paesaggio, per esempio, per me deve essere le estati e gli inverni che l'hanno forgiato, i piedi che hanno calpestato l'erba e la sua terra, la cenere di ossa che porta nell'impasto. E un volto, la somma dei sorrisi che ha regalato, dei pianti che ha fatto, delle carezze godute. La fotografia è questo! un amore e un dolore indicibile, sottile e continuo, profondo. Non mi interessa la perfezione dell'immagine, (ho sempre avuto fotocamere da poco ) non mi interessa immortalare il classico compleanno o un arcobaleno, la gita o un prato di margherite in fiore, ma la loro anima e la voce, il motivo e il senso nel contesto del momento! Quelli, bisogna cogliere e fermare nello scatto! La silenziosa consapevolezza del mistero eterno dell'uomo, della vita e della morte sulla terra intera.

Le paure, la sofferenza e i sogni, il travaglio dell'esistenza, quello feroce e continuo di tutte le cose, che non lascia scampo a niente e a nessuno. Per questo motivo nei miei scatti il nero è forte, violento, come eguagliasse il dolore che tutti conoscono: ambiguo e abissale, ferreo, che storpia case e piante, facce e muri. Angolature crude e selvatiche da girone d'inferno dantesco, aloni che vertiginano in una confusione sovraesposta e poi dileguano, incespicano, spariscono. Lasciano posto alla luce, alla speranza che vince sempre e comunque, anche se la si vede in un puntino soltanto che si ostina in mezzo allo scuro, perché lì si rifugia l'uomo con le sue debolezze, perchè della luce ne ha un bisogno prepotente, come di un gancio a cui aggrapparsi per continuare a vivere.

Una fotografia deve essere un cumulo di verità e di vita dove si percepisce il sentimento, dove dentro si muove ancora l'albero e vibra l'erba sopra la terra da sentirne l'odore. Dove la faccia torna a dire parole che non ha mai detto e gli occhi a raccontare sogni mai fatti. Una fotografia deve mostrarsi a chi la guarda nuda e cruda come una martire o una cosa sacra, ecco cosa deve essere la fotografia!... Una forza capitale, un messaggio universale da impressionare e nello stesso tempo far sognare, sempre.

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